Riforma terzo settore 2020: è ora di valutare le opportunità

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Nel nostro Paese il cosiddetto “Terzo Settore” riveste un ruolo economico e sociale di primo piano. Anche nel recente discorso programmatico del Presidente Draghi al Senato viene ribadita l’importanza del volontariato e del terzo settore in generale nella società, dandone quindi un’investitura anche per il futuro.

Dal censimento Istat pubblicato ad ottobre 2019 risultano operativi in Italia oltre 350.000 organizzazioni operanti nel non profit, di cui quasi 300.000 associazioni riconosciute e non, 7.500 fondazioni, oltre 15.500 cooperative sociali e 30.000 enti costituiti in altre forme giuridiche. Il settore del non profit occupa quasi 850.000 lavoratori dipendenti di cui 310.000 circa nell’assistenza sociale e protezione civile, 185.000 nella sanità, 125.000 nell’istruzione e ricerca, quasi 100.000 nello sviluppo economico e coesione sociale e quasi 60.000 nella cultura e nello sport.

La Riforma era attesa e necessaria per disciplinare e dare organicità e ordine alla materia, su cui negli anni il legislatore è intervenuto più volte con interventi specifici sulle singole tipologie di ente o su singole fattispecie. La stessa istituzione di un registro unico rappresenta un punto di svolta notevole.

Riferimenti normativi

Il percorso della riforma è iniziato con la Legge Delega n. 106 del 6 giugno 2016 per arrivare al Codice del Terzo Settore (CTS) Decreto Legislativo n. 117 del 3 luglio 2017. Riguardo alla normativa di riferimento tra gli altri vanno principalmente citati i Decreti Legislativi sempre del 3 luglio 2017 n. 111 sul 5 per mille e n. 112 sull’impresa sociale, il Decreto ministeriale del 5 marzo 2020 sulla modulistica di bilancio degli ETS e soprattutto il DM n. 106 del 15 settembre 2020 sul Registro Unico del Terzo Settore (RUNTS). Per le modalità di adeguamento statutario al CTS è possibile riferirsi al documento di prassi Circolare del Ministero del Lavoro n. 20 del 27/12/2018.

Perché Terzo Settore?

E’ proprio l’art. 1 della Legge Delega a fornire la nozione di Terzo Settore: “Il complesso degli enti privati, costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti e atti costitutivi, promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni e servizi”.

Per cui dopo il Primo settore che è lo Stato che persegue interessi pubblici, il Secondo settore che è il Mercato che persegue il profitto abbiamo, non per ordine di importanza, il Terzo settore che riguarda i soggetti e le iniziative private che perseguono obiettivi sociali generalmente perseguiti dalle pubbliche amministrazioni, diversi dal profitto. Quindi possiamo dire che nel Terzo settore il privato va in supporto allo Stato nel tentativo di perseguire interessi generali non legati al profitto.

E’ qui troviamo anche le ragioni sostanziali che hanno ispirato la Riforma del Terzo Settore vale a dire assicurare maggiori agevolazioni fiscali agli ETS più meritevoli rispetto a quelli che lo sono meno. A fronte di questi vantaggi vengono giustamente richiesti dalla normativa maggiori obblighi di rendicontazione contabile, maggiori controlli (interni ed esterni) e massima trasparenza mediante la pubblicazione dei dati nel registro pubblico e nei siti internet o sui social. Questo a garanzia dei terzi che finanziano gli ETS e nel rispetto dell’utilizzo delle agevolazioni dello Stato e quindi del denaro pubblico.

Cosa significa senza scopo di lucro

Ma cosa significa che gli enti del terzo settore devono essere “senza scopo di lucro”. L’assenza di scopo di lucro deve intendersi in senso soggettivo e non oggettivo: l’ente può avere un utile, dei margini, degli avanzi di gestione. L’importante e che non lo distribuisca agli associati ma lo reinvesta nell’attività istituzionale. Quindi scopo di lucro oggettivo si, soggettivo no.

Accanto all’attività istituzionale l’ente potrebbe svolgere strumentalmente anche attività commerciali, quelle dell’art. 2195 del codice civile. Quindi si può essere ente senza scopo di lucro e contemporaneamente svolgere strumentalmente attività commerciale. L’attività commerciale deve però essere secondaria e non prevalente rispetto alla istituzionale (quella di interesse generale): se prevale l’attività istituzionale sulla commerciale l’ente è non commerciale, se a prevalere è l’attività commerciale sulla istituzionale allora l’ente rimane comunque ente e non società in quanto non distribuisce né direttamente né indirettamente utili, però è considerato commerciale. Sia nell’uno che nell’altro caso va evidenziato che l’ente rimane ente e può entrare nel RUNTS, perché non ha scopo di lucro. La grande differenza è che se prevale l’attività di interesse generale la normativa riserverà all’ente grandi agevolazioni, se invece prevale la natura commerciale dell’ente allora la normativa permette di rimanere nel RUNTS però impone di pagare le imposte e l’Iva al pari di un’impresa commerciale.

A livello fiscale cosa ne consegue?

Premesso che tutti gli enti sono assoggettati a IRES, la differenza tra ENC ed ente commerciale è che l’ente commerciale è equiparato fiscalmente ad una SPA/SRL, quindi avrà tutte le attrazioni nella sfera commerciale sia ai fini Iva che ai fini delle imposte dirette. Ciò significa che per qualsiasi operazione, sia commerciale che istituzionale dovrà emettere fattura con Iva e dal punto di vista delle imposte dirette tutti i proventi saranno tassati come redditi di impresa, in quanto attratti nella sfera commerciale.

L’ente non commerciale invece è equiparato ad una «persona fisica» (anche se rientra nella sfera dell’IRES, probabilmente ma per una disattenzione del legislatore) perché ha due sfere confuse in esso: una sfera privata/istituzionale (fuori campo iva e non imponibile) e una sfera eventuale di impresa (iva, reddito d’impresa) se svolge anche attività secondaria commerciale. Quindi ogni volta che l’ente non commerciale esegue un’operazione va verificato se la sta svolgendo nella sfera commerciale o istituzionale: nel primo caso scatta l’assoggettamento ad Iva e produce reddito d’impresa, nel secondo caso no. Inoltre, come per le persone fisiche, gli enti non commerciali determineranno il reddito imponibile come sommatoria dei redditi fondiario più impresa più di capitale più diversi.

Risulta evidente come per un ente senza scopo di lucro la massima convenienza è rimanere ente non commerciale.

Con l’entrata in vigore del Codice del Terzo Settore i parametri che determineranno la natura commerciale di un ente cambiano e saranno diversi tra gli ETS iscritti al RUNTS e gli altri enti fuori dal RUNTS. Bisognerà stare molto attenti a questo passaggio per valutare la convenienza e l’opportunità di entrare nel RUNTS o rimanerne fuori.